Fausto Silva: pittore, scultore e scrittore. Nasce a Gropparello, sull’ Appennino piacentino, il 25 settembre 1945.

Come sei arrivato in Brianza?

Ero un contadino senza terra. Alla fine degli anni cinquanta lavorare sotto un padrone era vita da schiavi, per ottenere qualcosa si doveva scioperare per mesi e fare la fame. I miei si sono trasferiti in città. Ho lavorato da muratore e poi nella centrale elettrica di Piacenza fino a quando sono andato in marina. Al ritorno sono tornato a lavorare nella centrale elettrica, in un posto molto tossico. Allora ho cercato un lavoro all’aperto e senza padroni intorno. Ho trovato subito un posto di guardia notturna, a Renate Brianza. L’impegno notturno mi era utile per concentrarmi, fare schizzi, prendere appunti, e durante il giorno trovavo il tempo di realizzare qualcosa nelle diverse forme d’arte.

Quando hai cominciato a dipingere e scolpire?

Mio padre ricordava che a Monterosso, il piccolo borgo nel comune di Gropparelo dove sono nato, e siamo stati fino al mio quarto anno d’età, vicino a una fonte modellavo forme di persone e animali nell’argilla, ed era certo che prima di me non aveva mai visto nessuno fare quella strana cosa. In quarta e quinta elementare ho trovato un insegnante che mi ha lasciato completamente libero di dipingere sui muri di tutte le aule, di scolpire il legno, e di scrivere teatro, tutto come mi pareva e non mi chiedeva altro.

Hai avuto riscontri da galleristi o critici?

Negli anni settanta molti artisti frequentavano la mia casa, e tra questi, qualcuno che adesso è conosciuto in tutto il mondo. E ho contattato critici e mercanti, ma per me, che nell’espressione artistica cerco la libertà d’espressione e il desiderio di comunicazione più profondo, e altro potere non riconosco, tanto più mi davan fastidio le indicazioni di come lavorare il tal senso, di persone che l’arte l’avevan solo venduta; quindi molto presto rompevo ogni relazione di quel tipo. Sono quasi trent’anni che non cerco nessun contatto col giro dell’arte, anche se vuoi un certo riconoscimento è lì che lo puoi trovare. Qualcuno mi ha riferito che un critico importante, qualche anno fa, ha visto alcune delle mie più minuscole sculture di pietra, e pare che abbia cercato di contattarmi, desiderando vedere tutta la mia opera, ma allora vivevo solo, in una casa senza corrente, e non ho fatto niente per contattarlo.

So che ami lo sport e i grandi campioni. Quanto ha contato ciò nella tua vita e nella tua arte?

Tutto ciò che una persona ha vissuto entra in ogni senso, anche inconsciamente nella sua anima. Razionalmente secondo la nostra cultura noi c’impegniamo per assorbire il meglio eliminando il peggio. Il grave problema per ogn’uno, è che il massimo di assorbimento per ciò che saremo nella vita, come persone e come artisti, avviene nei primi tre anni, quando siamo totalmente senza difese.
Razionalmente posso dire che lo sport mi ha aiutato emotivamente a non cadere nell’eccessivo sensibilismo che prende gli artisti in genere, e forse più intensamente gli scrittori, troppo spesso calati in problemi e profondità che possono a lungo termine essere deprimenti. Verso i sedici anni mi sono accorto che quando stavo per lunghi periodi senza fare sport, soffrivo più acutamente le situazioni morali difficili. Quindi per non cadere nell’eccesso di sensibilità, piuttosto che l’alcol o altra roba stupefacente, che d’altra parte non conoscevo, ho trovato che per me il meglio era lo sport agonistico.
Il mito dell’uomo forte c’è da quando esiste l’umanità culturale. Lo sport è stato forse il primo vero fenomeno globale, con le Olimpiadi e campionati mondiali. Nelle ultime generazioni, il doping sta uccidendo lo sport, che come mito forse è già morto. I miti come le religioni hanno bisogno di purezza per vivere, altrimenti resta soltanto la sovrastruttura mercantile. E in futuro il mito della forza forse rivivrà localmente, com’era nei piccoli centri nel primo novecento.
Al di là del doping, ammiro i campioni dello sport per l’eccezionale forza di volontà; ma nella mia infanzia ho visto contadini portare sacchi di grano di un quintale, dall’alba al tramonto, su per scale ripidissime, fino ai solai, e per tutta la campagna del grano della zona, che poteva durare più di quaranta giorni.
Col passare del tempo la sensazione della vittoria sportiva mi entusiasma sempre meno; ma anche quando avevo vent’anni mi piaceva la competizione in sé... L’agonismo, le fatiche hanno il loro fascino misterioso, ma la tristezza degli sconfitti mi toglieva quasi del tutto la soddisfazione della vittoria.

Negli ultimi tempi ti sei dedicato intensamente alla scrittura. In particolare hai recentemente pubblicato un romanzo, Il vanto della Brianza. Come mai questa svolta, se tale è, nella tua espressione artistica?

La scrittura è la forma d’espressione che ho sempre coltivato con maggiore continuità, cominciando dalle prime poesie, scritte durante le lezioni in terza elementare, e in quarta e quinta scrivevo dei piccoli canovacci che poi rappresentavo insieme ai miei compagni di classe per tutte le scuole di Fiorenzuola. E ho continuato sempre a scrivere fiabe, poesie, teatro e romanzi, senza la minima idea di pubblicare, solo per comunicare qualcosa, oltre il normale discorrere, con le persone che conoscevo direttamente. Ma la vera elaborazione della scrittura è cominciata dopo i cinquant’anni. Prima non potevo, perché il temperamento m’impediva di stare seduto per più di un quarto d’ora, e scrivevo di solito passeggiando per i boschi, o quand’ero costretto a letto per incidenti o malanni. Faccio ancora fatica a star fermo e ogni mezz’ora circa mi alzo per fare qualche esercizio fisico, o lavori manuali.

Il problema della natura oltraggiata, delle innumeri specie viventi – animanti le chiami – è molto presente nel tuo lavoro…

Parlare d’amore per qualsiasi forma di vita, può apparire banale per chi non lo prova, ma ci sono persone che sono disposte a spandere molto sudore, anche per la vita delle piante e degli animali, e se il caso lo vuole, si può rischiare del sangue, per creature che chissà, forse dopo tanta vana attesa della nostra redenzione, possono essere predilette dal Creatore.
Piante e animali sono creature come me. Mi perdo nel mistero che ci ha messo e ci sostiene nello stesso mondo. L’amore cresce, e bruciando gioiosamente mi tiene desto e vigile nel rispetto, e pieno d’entusiasmo nonostante le estreme difficoltà delle relazioni umane e gli acciacchi dell’invecchiamento.
L’autentico amore per gli animali si forma forse principalmente dalla fusione tra la loro innegabile naturale bellezza e la difficoltà e la sofferenza che sopportano dignitosamente per vivere. E questo lo sento drammaticamente. Immagina un leprotto che passa l’inverno tra la neve, braccato dai cani, e magari resta ferito da una fucilata... o non ritrova la sorgente che noi abbiamo rovinato scavando per costruire una villa inutile, o dove c’era acqua pulita trova liquido mortale... E immagina qualsiasi animale lento, come un rospo, o una salamandra, coinvolti in un incendio causato da noi per diversi motivi, quasi sempre insensati.
Qualcuno può dire che con tutti i problemi che ci sono per l’umanità, dai bambini che muoiono di fame, di sete, per malattie, e dilaniati nelle guerre infinite... A questa gente, sempre pronta a criticare il rispetto eccessivo per gli animali, posso rispondere che l’amore per le creature non si compra e non si vende, e se per gli animali provo autentico equilibrato sentimento di protezione, tanto più mi batterò energicamente per i bambini.

Se dovessi definire il tuo stile, sia nelle arti figurative che in letteratura, che parole useresti?

Nella pittura forse prevale il senso psicofisico delle forme di vita che vogliono prima di tutto vivere, espandersi secondo la propria potenza naturale, ma qui nasce la difficoltà dell’esistere, la lotta per lo spazio, e il dolore conseguente.
Nella scultura cerco le forme create dal movimento dei corpi, nell’ansia delle relazioni in via di sviluppo e il declino nello spazio, come una metamorfosi incessante.
Nella scrittura l’importanza maggiore viene data alle difficoltà delle relazioni famigliari sociali... erotico affettive in genere... alle degenerazioni delle esigenze vitali, come l’accumulo illimitato di soldi e di beni immobili, quasi che si aspirasse a vivere in eterno, cosa che d’altra parte, certe correnti mediche americane tendono a mettere in circolo.
Una definizione per il mio stile non la trovo. Il relazionismo comunque appare sempre dominante. Sono sempre teso nella ricerca del linguaggio che chiarisca quanto noi esistiamo soltanto nella trasformazione incessante delle relazioni. Relazioni che per la maggior parte sfuggono alla nostra individuale capacità d’osservazione concettuale.

I tuoi autori preferiti?

I gusti cambiano col trascorrere del tempo, ma ci sono autori che restano intatti nei decenni.
Fino a una ventina d’anni fa ammiravo Goethe più d’ogni altro. Dante resta l’originarietà del linguaggio, Ariosto l’armonia, Tolstoj l’ampiezza della visione sempre controllata, Dostoevskij la profondità sviscerata, Cechov la simpatia umana; ma Eschilo e Leopardi, pur diversissimi, si elevano sempre più, nella tragica, sublime semplicità. Leopardi è l’unico personaggio reale del passato che ho fatto vivere in me, come un amico d’infanzia, e ho immaginato di fare sport insieme a lui, in modo di fargli provare l’entusiasmo della forza e della salute, nel sogno di sottrarlo almeno in parte alla disperazione. La commozione esistenziale, che porto intatta da mezzo secolo, per Leopardi uomo poeta, non trova paragoni. Tra gli autori del novecento, sono sempre ammirato e commosso dalla rocciosa semplicità del solitario Beppe Fenoglio.

E tra pittori e scultori…

Diversamente dagli scrittori, tra i pittori preferisco i moderni rispetto agli antichi. Tra i più amati nei diversi tempi ricordo Segantini, Renoir, Boccioni, Modigliani e tanti altri, che via via si sono allontanati dalla mia visione, in costante evoluzione. Restano intatti parte di Picasso e tutta l’opera estremamente rigorosa, magica e spirituale insieme, di Paul Klee.
Michelangelo, come il tragediografo Eschilo, è per me l’artista più arcano e possente; ma la scultura per me più affascinante resta quella dell’India antica.
Se tra gli artisti posso considerare anche i musicisti, fra tutti preferisco Verdi. Verdi smentisce quegli intellettuali che considerano l’Opera una forma d’arte che ha a che fare con l’irreale. Ascolta ad esempio la Traviata e mi dirai se non è più intimamente interiorizzata di una pur grande opera di teatro in prosa. L’Opera segue sì una trama, ma la trascende interiorizzandola all’estremo, per arrivare al nucleo dei nostri sogni reali e segreti, e al mito irraggiungibile che proiettiamo di noi stessi e delle persone che sono nelle nostre relazioni più importanti. E questo si raggiunge naturalmente nelle Opere migliori, soprattutto in Verdi, ché come naturalezza melodica e autentica originarietà musicale non ha niente da invidiare neanche a Mozart. E credo che sia uno tra i rarissimi artisti dotati della potenzialità che potrebbe affascinare i più disparati ascoltatori in ogni epoca.

Cosa pensi , guardando verso Milano di sera, della città, della cultura metropolitana…

Standoci sempre lontano ci penso poco, ma la sento come una sotterranea minaccia in espansione. Una trentina d’anni fa, ci passavo ogni tanto, e pensavo che chi c’è nato dentro non sa di essere in un inferno molto vario e interessante. Almeno i ceti più poveri, che sono forse la maggioranza e fanno fatica a tirare la fine del mese, non potendo permettersi l’aria condizionata, in estate devono viverci atrocemente. Già io non tolleravo di vivere a Piacenza negli anni sessanta. So che molti stanno nella metropoli per arricchirsi e si fanno i mezzi per comprarsi pezzi di montagne che cintano di cemento, e con il benestare di certi comuni chiudono sentieri e sorgenti che i paesani della montagna, pur ignorando la sacralità della natura, che i sacerdoti nei secoli non avevan mai insegnato a considerare come opera del Creatore, avevano conservato nel rispetto di tutti, per millenni. Pare che la visione metropolitana sia tesa all’espansione infinita, quindi a un certo punto, se molti non trovassero la forza di opporsi a quel tipo di sviluppo, il mondo inevitabilmente diverrebbe una sola megalopoli. Ma io credo che la guerra futura sarà su questo fronte, e spero che sia una guerra fatta con le idee. L’importante è che i tiranni rimangano dalla parte di chi distrugge l’opera del Creatore. Preferirei morire subito piuttosto che vedere al potere un ecologista tiranno.

Intervista pubblicata nel mese di luglio 2007 sul periodico "Brianze"

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